« … BEPPE COSTA… INCONTRI FERNANDO ARRABAL E I POETI DELLO SPAZIO… A ROMA … L’OTTO E IL NOVE MARZO 2010 presentano Carlo Mirabelli e Beppe Costa
letture interpretate da Caterina Intelisano musiche di Fabio Mariani e Dario Pierini… L’importante autore teatrale e regista cinematografico contemporaneo tra i più rappresentati al mondo incontrerà il suo pubblico l’otto e il nove marzo prossimi presso la libreria Pellicanolibri, via Gattico, 3 Roma – ore 20.In occasione della ristampa, a 50 anni di distanza, del suo “Pique nique en campagne” ad opera della casa editrice Pellicanolibri con traduzione in italiano (LA SCAMPAGNATA), l’autore parlerà di letteratura e di teatro.FERNANDO ARRABALHa diretto sette lungometraggi, pubblicato quattordici romanzi, circa ottocento libri di poesia e vari saggi. Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Ebbe particolare eco la sua Lettera al Generale Franco (Carta al General Franco, in italiano da Pellicanolibri) pubblicata quando il dittatore era ancora in vita. Alla morte di Franco, il nome di Arrabal appare nella lista dei cinque spagnoli più pericolosi: Carrillo, la Pasionaria, Líster, il Campesino e, appunto, Arrabal.Nel 1963, con Alejandro Jodorowsky e Roland Topor, fonda il Gruppo Panico. Dal 1990 è Trascendent Satrape del Collegio di Patafisica. Amico di Andy Warhol e di Tristan Tzara, fece parte per tre anni del gruppo surrealista di André Breton; per questo motivo, Mel Gussow lo definisce l’unico sopravvissuto delle «tre reincarnazioni della modernità».Fernando Arrabal, erede di Kafka ma anche di Alfred Jarry, è autore di un teatro geniale, brutale, sorprendente e gioiosamente provocatorio. Un potlatch drammatico in cui i rottami delle nostre società “avanzate” si carbonizzano nel festoso recinto di una rivoluzione permanente.
« Viva la Muerte » Fernando Arrabal di Sergio Di LinoEsordio cinematografico di uno dei fondatori del movimento Panico « Viva la Muerte », primo lungometraggio di Fernando Arrabal, fa la sua irruzione in scena nel 1970, allorché il regista di Melilla, co-fondatore del movimento Panico assieme agli altri « esuli eccellenti » Roland Topor e Alejandro Jodorowsky, è già una delle personalità più note e irregolari del panorama letterario e teatrale delle nuove avanguardie. Malgrado i protagonisti abbiano, in varie forme e vari modi, almeno parzialmente ritrattato, nelle opere di Arrabal, come in quelle di Jodorowsky (e in maniera diversa in quelle di Topor), sono evidenti le influenze delle avanguardie storiche, in particolare i movimenti surrealista e dadaista: oggi lo stesso Arrabal tende a conferire loro un ruolo « formativo », per così dire, « indotto », nell’ambito della sua poetica, più facilmente attribuibile a un « sentire comune » che non a una reale pratica di assimilazione. Ma è innegabile che le trovate visivo-narrative e il potenziale onirico-perturbante delle opere cinematografiche (e non solo) di Arrabal, a partire proprio da Viva la Muerte, attinga dallo stesso humus culturale e persino ideologico. Differenziale di tutt’altro che secondaria importanza, nell’opera di Fernando Arrabal, è costituita dall’inclusione di un forte elemento autobiografico. E in tal senso « Viva la Muerte », nel rievocare l’infanzia dello scrittore/drammaturgo/regista/giocatore di scacchi nella sua Melilla (una Melilla completamente trasfigurata e « reinventata » dalla fragile memoria infantile dell’autore), compresi gli episodi più scabrosi quali la delazione della madre e l?arresto del padre da parte delle truppe golpiste del generale Franco, costituisce un paradigma efficace di tutta la produzione cinematografica successiva del regista, a partire dal successivo « J’irai comme un cheval fou ». Tratto con una certa, programmatica « infedeltà », dal romanzo Baal Babylone, scritto dallo stesso Arrabal nel 1959 (prima della fondazione del Teatro Panico, avvenuta nel 1962), Viva la Muerte trasfigura il dolore della perdita della figura parentale, e al tempo stesso la condanna accorata del totalitarismo, in un campionario di orrori e nefandezze, ben illustrate dai disegni di Topor che accompagnano i titoli di testa (al suono, contrappuntistico, straniante e inquietante, di una nenia infantile danese, costituita perlopiù da suoni onomatopeici), che il regista esibisce con una voluttà « formalista » in grado di farsi spontaneamente provocazione, sberleffo, ma anche denuncia senza mezzi termini dell’orrore della sopraffazione: dare plasticamente forma ai propri incubi, in primis la morte del padre e la controversa figura della madre-mantide, serve al regista a esorcizzarli e ad affrontarli. Nel film si susseguono, senza soluzione di continuità, mutilazioni, defecazioni, vomiti, mattanze di animali e improbabili tassidermie « incrociate » (vedere il finale per credere), tutte pervase da un gusto necrofilo che « gioca » con i corpi, smembrati e straziati, oppure voluttuosamente esibiti come indice della propria colpa (vedasi, ancora una volta, la figura della madre), come un instancabile bric-à-brac, non facendo altro che ricollocare semanticamente il corpo umano all’interno del tessuto filmico, di volta in volta in « luoghi » ‘reali e simbolici’ differenti. Da notare infine che le sequenze oniriche dei ricordi-visioni del piccolo protagonista Fando sono girate in videotape e quindi manipolate cromaticamente: una piccola, pionieristica avventura espressiva, essendo all’epoca il supporto video magnetico agli albori del suo utilizzo cinematografico… »